Susan Jacoby
The Dumbing Of America
Chiamatemi snob ma, sul serio, siamo una nazione di somari
“Washington Post”, february 17, 2008
“Lo spirito di questo paese, ammaestrato a mirare al minimo sindacale, divora se stesso.” Ralph Waldo Emerson, fece questa osservazione nel 1837, ma le sue parole echeggiano come una sgradevole profezia negli Stati Uniti molto diversi di oggi. Noi Americani siamo in grave difficoltà intellettuale - sul punto di perdere il nostro patrimonio culturale duramente conquistato, a favore di una virulenta miscela di anti-intellettualismo, anti-razionalismo e aspettative modeste.
Questo è l’ultimo tema che tutti i candidati avrebbe dovuto sollevare durante la lunga e tortuosa strada verso la Casa Bianca. È quasi impossibile parlare del modo in cui l’ignoranza del pubblico aggrava i problemi nazionali, senza essere classificati come “elitari”, uno dei peggiori insulti che possono essere affibbiati a tutti coloro che aspirano ad un’alta carica istituzionale.
Invece i nostri politici assicurano ripetutamente che anche loro sono la “ggente”, un termine paternalistico che si cercherebbe invano nei discorsi presidenziali prima del 1980. (Pensate: “Stabiliamo qui con chiarezza che questi morti non sono morti invano... E che il governo della gente, dalla gente, per la gente, non sparirà dalla terra.”). Queste esaltazioni del populismo sono in ogni epoca tra i tratti distintivi dell’anti-intellettualismo.
Il classico lavoro su questo tema di Richard Hofstadter, storico della Columbia University, Anti-Intellectualism in American Life, venne pubblicato nei primi mesi del 1963, tra le crociate anti-comuniste dell’era McCarthy e le convulsioni sociali dei tardi anni ‘60. Hofstadter ha definito l’anti-intellettualismo americano sostanzialmente come un fenomeno ciclico, che spesso si è manifestato come il lato oscuro degli impulsi di un paese democratico nella religione e nell’educazione.
Ma oggi il marchio di anti-intellettualismo è più un diluvio che un fenomeno ciclico. Se Hofstadter (che morì di leucemia nel 1970, a 54 anni) fosse vissuto abbastanza a lungo per aggiornare il proprio studio, avrebbe rilevato che la nostra epoca di infotainment 24 ore su 24 ha superato le sue più apocalittiche previsioni sul futuro della cultura americana.
La soglia della stupidità, per parafrasare il compianto senatore Daniel Patrick Moynihan, si è abbassata costantemente per diversi decenni, per una combinazione di forze finora irresistibili. Queste includono il trionfo della videocrazia sulla stampa (e per video intendo ogni forma di media digitali, anche quelli della vecchia elettronica); la netta divaricazione tra l’aumento del livello di istruzione formale degli americani e le loro modestissime conoscenze di geografia, scienze e storia; e la fusione di anti-razionalismo ed anti-intellettualismo.
In prima fila tra i vettori del nuovo anti-intellettualismo c’è il video. Il declino della lettura di libri, giornali e riviste è ormai una vecchia storia. Il calo è più marcato tra i giovani, ma continua ad accelerare e riguarda gli americani di tutte le età e livelli di istruzione.
La lettura è diminuita non solo tra gli scarsamente istruiti, come mostra un rapporto dell’anno scorso del National Endowment for the Arts. Nel 1982, l’82 per cento dei laureati leggeva romanzi o poesie per diletto; due decenni più tardi erano solo il 67 per cento. E oltre il 40 per cento degli americani sotto i 44 anni non ha letto un solo libro – narrativa o saggistica – nel corso di un anno. La percentuale di giovani di 17 anni che non ha letto nulla (con l’eccezione degli obblighi scolastici) è più che raddoppiata tra il 1984 e il 2004. Questo periodo di tempo, naturalmente, ha visto l’aumento di personal computer, internet e videogame.
Tutto questo non ha importanza? I tecnofili irridono questi piagnistei sulla fine della cultura della stampa come tipici di (che altro?) snob troppo pensosi. Nel suo libro Everything Bad Is Good for You: How Today’s Popular Culture Is Actually Making Us Smarter il divulgatore scientifico Steven Johnson ci assicura che non abbiamo nulla di cui preoccuparci. Certo, i genitori possono spiare i loro “bambini vivaci e attivi mentre fissano uno schermo in silenzio e a bocca aperta”; ma questi comportamenti da “simil-zombie” “non sono segni di atrofia mentale. Sono segni di attenzione”. Sciocchezze. La vera domanda è su che razza di bambini stiano davanti allo schermo, non su quello su cui sono concentrati, mentre siedono ipnotizzati da video che hanno visto decine di volte.
Nonostante un’aggressiva campagna di marketing volta a spingere marmocchi e persino lattanti di 6 mesi a guardare la tv, non vi è alcuna prova che fissare uno schermo sia tutt’altro che negativo per neonati e ragazzini. In uno studio apparso lo scorso agosto alcuni ricercatori dell’Università di Washington hanno scoperto che i bambini tra gli 8 e i 16 mesi riconoscevano una media di sei-otto parole in meno per ogni ora trascorsa a guardare la tv.
Non posso dimostrare che leggere per ore in una casetta sull’albero (quello che facevo a 13 anni) crei cittadini più informati che smanettare sull’Xbox o rimanere attaccati a Facebook. Ma l’incapacità di concentrarsi per lunghi periodi di tempo - come è evidente dalle rapidissime visite alle notizie sul web - mi sembra intimamente legata all’incapacità del pubblico di ricordare anche le notizie di fatti recenti.
Non è sorprendente, per esempio, che si sia parlato molto meno della guerra in Iraq nelle ultime fasi della campagna presidenziale rispetto a quelle precedenti, semplicemente perché ci sono stati meno servizi televisivi sulla violenza in Iraq. I candidati, come gli elettori, prestano attenzione alle ultime notizie, non necessariamente a quelle più importanti.
Non c’è da stupirsi se l'antipolitica prende piede. “Con un testo, è più facile ricordare i differenti gradi di autorevolezza dietro le diversi fonti di informazioni”, ha notato di recente sul “New Yorker” il critico culturale Caleb Crain. “Il confronto di due servizi televisivi, invece, è complicato. Costretto a scegliere tra due versioni televisive opposte, il telespettatore si accontenta di impressioni o di quello di cui era convinto prima di aver visto il servizio”.
Visto che i teledipendenti diventano sempre più insofferenti all’acquisizione di informazioni attraverso la lingua scritta, tutti i politici sono costretti diffondere i loro messaggi il più velocemente possibile - e la rapidità di oggi è molto più fulminea di quanto fossimo abituati. Kiku Adatto, dell’Università di Harvard, ha rilevato che tra il 1968 e il 1988 il tempo medio della presenza di un candidato alla presidenza all’interno delle news – cioè la voce del candidato stesso – è sceso da 42,3 secondi a 9,8 secondi. Prima del 2000, secondo un altro studio di Harvard, la durata è scesa ad appena 7,8 secondi. Il calo di attenzione indotto dalla tv è strettamente legato alla seconda importante spinta anti-intellettuale della cultura americana: l’erosione della cultura media.
Gente abituata a sentire il presidente chiarire complesse manovre politiche con un secco “Sono io che decido” non riesce a immaginare il rovello di Franklin D. Roosevelt, nei terribili mesi dopo Pearl Harbour, mentre spiegava il motivo per cui le forze armate degli Stati Uniti perdevano nel Pacifico una battaglia dopo l’altra. Nel febbraio 1942 Roosevelt invitò gli americani a tirar fuori una cartina durante il “discorso del caminetto” radiofonico, in modo che potessero capire meglio la geografia della guerra. Nei negozi in tutto il paese le mappe andarono esaurite; circa l’80 per cento degli americani adulti si sintonizzava per ascoltare il presidente. Roosevelt aveva detto ai suoi collaboratori di essere sicuro che se gli americani avessero capito l’immensità delle distanze che dovevano coprire i rifornimenti per le forze armate, “avrebbero sopportato ogni tipo di cattiva notizia che dovesse arrivare sul groppone”. Si tratta del ritratto non solo di una diversa Presidenza e presidente, ma anche di un paese e di cittadini differenti, che non avevano accesso alle mappe di Google, ma che erano molto più disponibili dell’opinione pubblica odierna all’apprendimento e alla complessità. Secondo un sondaggio del 2006 del National Geographic-Roper, quasi la metà degli americani tra i 18 e i 24 anni non crede sia necessario conoscere la posizione di altri paesi dai quali provengono notizie rilevanti. Più di un terzo non ritiene “affatto importante” conoscere una lingua straniera, e solo il 14 per cento lo considera “molto importante”.
Il che ci conduce al terzo e ultimo fattore che sta dietro la nuova ottusità americana: non tanto l’ignoranza quanto l’arroganza nell’esibirla. Il problema non riguarda solo le cose che non sappiamo (si pensi che un americano su cinque, secondo la National Science Foundation, crede che il sole giri intorno alla Terra); riguarda anche l’allarmante numero di americani che hanno concluso con boria che non è necessario conoscere queste cose. Lo si chiami anti-razionalismo - una sindrome che è particolarmente pericolosa per la nostra civiltà e le nostre istituzioni. Non conoscere una lingua straniera o la localizzazione di un paese importante è una manifestazione di ignoranza; negare che tali conoscenze abbiano rilevanza è puro anti-razionalismo. La mistura tossica di anti-razionalismo e di ignoranza compromette seriamente la discussione pubblica su questioni nazionali che vanno dall’assistenza sanitaria alle politiche fiscali.
Non c’è alcuna cura per questa rapida epidemia di tracotante anti-razionalismo e anti-intellettualismo; certo, non servirà granché lo sforzo artificioso di migliorare i risultati dei test standard imbottendo gli studenti di risposte precotte a domande precotte in test precotti. Inoltre, le persone che semplificano il problema di solito se lo dimenticano in fretta. (“Quasi nessuno pensa di essere un nemico del pensiero e della cultura”, ha osservato Hofstadter). È scaduto il tempo per una seria discussione pubblica che ci faccia capire se, come nazione, apprezziamo a dovere intelligenza e razionalità. Se queste fossero davvero le “elezioni della svolta”, il misero livello della discussione in un paese con una mente ammaestrata a puntare basso dovrebbe essere il primo punto dell’agenda riformista.